Territorio e Storia
Tra il Molise e il Principato Ulteriore, a sud-est del Matese, s’eleva, a cavaliere ad una ridente valle, una collina, che, bagnata ai piedi da due ruscelli, veste i fianchi di verdi ulivi. Ne corre sulla sommità un gruppo di case, tra le quali, verso ponente, si leva una vecchia torre baronale tra gli avanzi dell’antico castello di Pontelandolfo.
Un muro di circuito poligonale, costruito sulle rocce, gira intorno ad un grazioso giardino di circa sei are, e a nord-ovest si addossa alla maestosa torre.
Dal lato orientale di questo muro di cinta s’apre un ampio portone dalle spallette semplici, con lo stemma dei Carrafa nella chiave dell’arco, mentre a destra di esso sporge fuori del muro una torretta, che ha due feritoie ed un occhio circolare di vedetta. Un altro portone, dal lato meridionale, i cui avanzi, ora sormontati dal muro di cinta, rivelano la stessa costruzione del primo, un tempo dava immediato accesso alle fabbriche del castello, che sorgevano a mezzodì.
La torre si leva di 21 metri dal suolo; ha le mura di basamento larghe metri 4,50, costruite a scarpa sopra un diametro di metri 14; e, dalla metà circa dell’altezza, dove un cordone di pietra bruna la cinge, si dirizza fino ai merli in forma perfettamente cilindrica. Quel cordone, tagliandola orizzontalmente, la distingue in due parti.
L’inferiore comprende due vani: uno spazioso, chiuso tra il basamento e una volta di pietre, era adibito ad uso di cisterna, da cui, per un foro scavato nel muro dal lato sud-ovest, si attingeva l’acqua pel bisogno degli assediati; l’altro, dell’altezza d’un uomo, interposto tra la volta della cisterna e il pavimento superiore, diviso in quattro settori eguali, serviva per conservare le munizioni. La parte superiore, poi, chiusa pure da una volta di pietre, era separata da un assito in due piani, che comunicavano per mezzo di botole.
Una grossa cornice di pietra limita il vecchio edilizio; e, sebbene spezzata e distrutta in parte, evidentemente mostra che un giorno reggeva la merlatura, da cui potevano i difensori tirar frecce e pietre, e, per mezzo del piombato, versar olio bollente e pece sugli assedianti.
Le riparazioni e le nuove costruzioni rendono oggi difficile un esame più minuzioso; e solo si può desumere che alla torre si accedeva dall’interno del castello mediante un ponte levatoio, il quale, partendo dalle mura del fabbricato che le si alzava di fronte, calava sulla soglia del finestrone che guarda a mezzodì. Oltre la mancanza di ogni altra possibile via di entrata, quel finestrone, di forma rettangolare, dalle spallette di pietra oscura, la cui costruzione è coeva alle mura della torre, è di troppo chiara eloquenza, perché si possa dubitare dell’uso a cui originariamente era destinato.
Pontelandolfo, secondo l’opinione del Pontano, porta seco il nome del suo fondatore. E’ invece più probabile, che un Landolfo dei principi di Benevento, prima del mille, abbia solo fatto costruire un ponte, dando ad esso il suo nome; e che la terra, la quale si venne formando a poco a poco vicino al ponte, si sia quindi chiamata Pontelandolfo: poiché, se quel principe avesse fondata una città o edificata una semplice fortezza, l’avrebbe chiamata, tutt’al più, Castel-Landolfo.
Nel 1134 un castello già da qualche secolo doveva dominare su quella regione, in cui s’incrociavano le vie provenienti dagli Abruzzi e dal Molise, dalla Capitanata, dal Beneventano e dalla Terra di Lavoro.
Ma solo dopo che i passaggi dell’esercito di Carlo d’Angiò nel 1266 e di quello di re Luigi d’Ungheria nel 1348, ebbero additata l’importanza strategica del luogo, i feudatari, per meglio fortificarlo, costruirono quella torre dalle poderose mura, che tuttora si ammira. La quale, d’altra parte, non potè essere edificata prima della seconda metà del XIV secolo; che, se ciò fosse avvenuto, Carlo Artus, che acquistò il castello nell’anno 1341, e che, qual capitano valoroso, fu tanta parte delle cose del reame, non avrebbe avuto il cattivo gusto di alienarlo quattro mesi dopo l’acquisto, ne il successore di lui ne avrebbe seguito l’esempio. E neppure si può ammettere che sia stata costruita dopo la prima metà del XV secolo: infatti, l’applicazione della polvere alle armi da sparo, allontanando gli assedianti dalle mura, avrebbe consigliato un sistema diverso di fortificazione.
Epperò sarei per ritenere, che ne fossero stati autori, tra la fine del XIV e il principio del XV secolo, i Gambatesa, conti di Campobasso, che possedevano estesi feudi tra il Principato Ultra e il Molise, e per parecchi anni tennero il castello di Pontelandolfo. Essi avevano tempo e denaro, e, quali potenti signori, avevan pure buona ragione di pensare seriamente di difendere i loro domini.
Nel 1134 rè Ruggiero, dopo che il conte Rainulfo ed altri conti ribelli gli si erano sottomessi e la città di Capua resa, venne a porre l’accampamento tra Morcone e Pontelandolfo, per dare a Roberto, figliuolo di Riccardo, le terre che il conte Ugone di Boiano gli aveva lasciate. Vide allora quel castello numerose milizie, ma non ebbe a patire ne assalti ne saccheggi. Nel 1138 invece, poiché Ruggiero, già creduto morto, fu tornato dalla Sicilia e con le armi ebbe di nuovo sottomessi i conti ribelli, furono le città insorte e le terre appartenenti ai ribelli saccheggiate e distrutte, e la terra di Pontelandolfo s’ebbe per la prima volta la prova dell’incendio e del saccheggio. Ma non fu solo in tanta sventura: a Pietrapulcina, Campolattaro, Fragneto, Guardia ed Alife toccò pari sorte. Le terre vennero messe a fuoco, le sostanze dei cittadini rapite, le chiese spogliate.
Il castello e la terra furono quindi concessi in feudo a qualche fedele vassallo del rè; ma non trovo alcun documento sulla prima investitura. Dal catalogo dei baroni8 risulta soltanto che Pontelandolfo, prima del 1169, era posseduto da Ugo Borsello, e valeva 40 once d’oro di rendita, e che il feudatario dovea prestare il servizio militare di quattro militi forniti di armi e cavallo e di otto scudieri completamente armati.
La mancanza della Cancelleria sveva non mi permette di raccogliere particolari notizie relative a quell’epoca.
Apre la serie dei feudatarii del periodo angioino il nobile Manfridio, che morì dopo pochi anni, lasciando erede Matteo. Questi è specialmente ricordato in un istrumento del 20 settembre 1273, nel quale, costituendosi innanzi al giudice di Benevento, promise di rispettare e proteggere gli uomini del casale di S. Teodora, quali vassalli della chiesa maggiore beneventana.
Sorgeva quel casale a settentrione del castello, nel luogo dove ora si distende una pianura, tra la contrada Ciscara e la Sorgenza.
Era poco distante dalla terra di Pontelandolfo; epperò gli abitanti di esso non senza ragione erano ricorsi alla chiesa metropolitana di Benevento, affinchè li garantisse dalle possibili molestie del feudatario più vicino, come di colui che maggiormente era da temere.
A Matteo successe nel 1294 il figlio Ruggiero, la cui successione fu raccolta dalla figlia Finizia, che nel gennaio 1306 chiese ed ottenne l’assicurazione dei vassalli nei beni del padre posseduti!!!
A questo punto sbucano parecchi padroni, e i diritti feudali vengono frazionati, contestati, usurpati. Nel 1317, mentre Giacomo di Casalduni pagava per sua moglie due terzi sull’adoa di quel feudo, Riccardo di Nocera se ne dichiarava signore per parte della moglie Floresia, la quale ne era ancora in possesso, quando, nel 1335, Margherita de Lauda, non so con qual diritto, ne vendè la terza parte a Tommaso Mansella di Salerno13. Ma nel marzo 1336, rè Roberto, considerando che quel castello era illegittimamente occupato da Floresia, lo donò a Cristofaro d’Aquino.
Fra i due contendenti sorge subito il terzo, cioè Luigi di Luparia, che, qual nipote “ex maire” ed erede di Alessandro di Boiano, chiede per sé il castello di Pontelandolfo, “castrum Pontislandulfi”, asserendo che l’avo suo da gran tempo l’aveva legittimamente e direttamente posseduto. Ed ottenne quanto chiedeva, poiché nel 1341 il feudo, con tutti i diritti ad esso attinenti, fu venduto formalmente dalla famiglia di Luparia a Carlo Artus, famoso capitano e ciambellano del rè.
Il giorno 6 dicembre 1341 i cittadini, solennemente riuniti presso il castello nel luogo solito dei pubblici parlamenti, nominarono nunzio e mandatario il sindaco Pietro Mangono, affinchè prestasse per loro al nuovo signore il giuramento di fedeltà, ordinato con lettere reali del dì 26 novembre; e il 10 dicembre, a Montesarchio, il Mangono giurava nelle mani del luogotenente del
Principato Ultra, “ad sancta dei evangelia”, fedeltà al rè ed a Carlo Artus.
Dopo pochi mesi, nell’aprile 1342, l’Artus alienò il castello in favore di Guglielmo de Brusaco. Il quale inaugurò l’immissione in possesso con un processo contro parecchi cittadini di Morcone e di Pontelandolfo, che avevano usurpato alcune terre feudali nelle contrade.
di Vallespina presso il lago e di Valle di Giovanni, sulla via che da Morcone va a Cerreto. Forse perché erano difficili le condizioni del feudo, lo vendè dopo tre anni, nell’agosto 1345, a Carlo Gambatesa, conte di Morcone, e di poi, nel 1347, a Pietro Scondito. Generale è la lacuna nelle scritture del periodo che corre tra il regno di Giovanna I e quello di Alfonso I, e solo di un avvenimento trovo precisa notizia.
Tra Morcone e Pontelandolfo, fin da tempo immemorabile, si osservava la comunità di pascolo e di altri usi civici nei loro tenitori di confine, i quali abbracciavano il doppio versante di quella catena, che, partendo dalla strada beneventana, corre verso Monte-Orfano (corrottamente oggi chiamato Montolfo), e di là volge a mezzogiorno verso la strada telesina. Le due università avevano già consacrati i patti e le condizioni della comunità negli statuti municipali, ma, per maggior cautela, ne chiesero alla regina Margherita di Durazzo l’approvazione, che fu concessa il dì 20 luglio 1381.
Formano questi statuti la vasta rete che avvolge per tanti secoli interessi demaniali e patrimoniali, privati e comunali. Null’altro appare che si riferisca a quell’epoca; certo è però che, al tempo di
Alfonso I, il conte di Campobasso già possedeva il castello di Pontelandolfo, e con esso altre castella e feudi nel Principato Ultra. Quando nel 1458 morì Alfonso I e gli successe Ferrante, il principe di Taranto ed altri baroni, come è noto, invitarono il duca Giovanni d’Angiò ad impadronirsi del regno. Tra i ribelli fu il conte di Campobasso, Niccolo Gambatesa di Monforte, signore del castello di Pontelandolfo; il quale, sulla fine del 1459, chiese di lasciare l’ufficio di viceré negli Abruzzi, a cui era stato precedentemente nominato, e, non appena l’Angioino ebbe messo piede a terra, si dichiarò per lui e gli offrì il passo per le sue terre. Era Niccolo successo nella contea di Campobasso al padre, Angelo, che, colpito dalla lebbra, avea miserevolmente chiusa la vita. Preoccupato dalla paura di cadere nello stesso male, e poiché aveva inteso che la vita di mare tenesse lontana quell’infermità, apparecchiò una lunga nave e si diede a combattere per mare i turchi, ai quali, dopo un sanguinoso combattimento, tolse una trireme. Iniziata pertanto favorevolmente l’arte di capitano, attratto dall’ambizione di maggiore gloria, passò alla milizia terrestre; e fu così attivo, sagace e valoroso, da stare a fronte a qualunque altro capitano del suo tempo. Educato alla scuola delle armi, ebbe animo fiero e violento, e la fama non gli risparmiò l’accusa che per vendetta avesse uccisa la propria moglie. All’amore delle armi unì la cura assidua dei suoi feudi, nulla tralasciò per rafforzare il suo dominio, e fece anche batter moneta.
Ma sul principio dell’autunno del 1462 rè Ferrante, che personalmente capitanava l’esercito ed aveva già sottomessi i baroni ribelli di Puglia, colto dal freddo e dalle piogge, a mezzo ottobre s’incamminò a capo dell’esercito, attraverso i monti, per recarsi nel Sannio, ove il clima era più mite e il territorio più abbondante di vettovaglie. Giunto a S. Martino, dopo breve assedio, lo rese
in poter suo; indi, passando per Riccia e Reino, giunse il 28 ottobre a Fragneto dell’Abate, e, trattenutosi ivi fino al 1° novembre per aspettare le artiglierie di legno, che per vie diffìcili seguivano lentamente l’esercito, corse ad assediare Pontelandolfo. Il conte aveva munita la terra di forte presidio, e, per ingannare il rè, cominciò a chieder tregua. Ma Ferrante si avvide dell’astuzia, e, dopo un assedio durato ben 11 giorni, nella notte del 13 al 14 novembre aprì la muraglia in più luoghi, mentre i difensori erano per arrendersi, così che la terra fu presa, mandata a sacco e bruciata. Divenuto padrone del castello e delle mura, vi rimase per due giorni ancora; e il 17 novembre aveva già piantate le tende presso Guardia, donde poi si volse all’assedio di Puglianello e d’altre castella e terre. Forse il Monforte aveva trattato col rè della resa da lontano per mezzo di ambasciatori; che, se fosse stato rinchiuso fra gli assediati, come taluno ha opinato, non avrebbe avuto l’agio di prendere la via dell’esilio, ne, d’altra parte, il Fontano, che aveva personalmente, qual segretario del rè, seguiti gli avvenimenti della guerra, avrebbe tralasciato, dopo la narrazione dell’assedio, di accennare la sorte immediata d’un vinto capitano, che tanto avea dato da fare al suo rè.
Perduti i beni e la speranza di riaverli, il conte Cola si rifugiò in Francia, seguendo insieme con altri illustri capitani la fortuna del duca Giovanni. Dopo di avere anche colà mostrato il suo valore militare, ritornò in Italia, e, mentre assoldava milizia per la repubblica di Venezia, morì negli accampamenti invernali, lasciando due figli esuli con lui. Parecchi anni appresso, il figlio primogenito, che aveva lo stesso nome dell’avo, Angelo, riacquistata la grazia reale, ritornò nel regno ed ottenne una parte dei beni paterni, ma non il castello di Pontelandolfo.
Questo, subito dopo l’esilio di Cola, era stato donato da rè Ferrante, con privilegio dell’8 dicembre 1466, a Diomede Carrafa, al quale nello stesso tempo si confermava la concessione di parecchie terre già donategli col titolo di conte di Maddaloni, in premio dei servigi resi a casa d’Aragona nelle repressione dei ribelli.
A Diomede, morto nel maggio 1487, successe il figliuolo Giantommaso, il quale fu confermato nel possesso delle castella e terre da Carlo Vili con privilegio del 13 marzo 1495, e riconfermato da Luigi XII con privilegio del 7 novembre 1502. Seguì a Giantommaso il figlio Diomede, al quale, essendo premorto il figlio Tommaso, ucciso in duello da Fabrizio Maramaldo, successe nel 1536 il nipote omonimo Diomede. Questi, sebbene fosse “multo ben fornito de debiti”, seppe conservare il patrimonio ereditato, e nel 1558 ottenne anche il titolo di duca; ma, poiché aveva per moglie Roberta Carrata, la quale “non havea facto ne teneva garbo de fare fìgli”, morì senza prole. Nei beni da lui lasciati il Collaterale, nel 1567, riconobbe erede Marzio Carrata, figlio della sorella.
I discendenti di Marzio conservarono, di padre in figlio, l’avito dominio fino a quel Marzio Domenico, che fu l’ultimo duca di Maddaloni, ma non l’ultimo possessore del feudo di Pontelandolfo, il cui dominio utile fu ceduto sulla fine del secolo XVIII al marchese d’Arienzo, Diomede Carrata, zio del duca, e passò, dopo la morte di Diomede (1805), al principe di Colobrano Francesco Saverio Carrafa. Del lungo periodo, che chiamerò dei Carraia, durato 340 anni, dal 1466 al 1806, le carte porgono abbondanti notizie riguardanti le tasse e i pagamenti, che costituiscono le fila dell’ordito, su cui si tesseva l’uniforme e pesante panno feudale. Spigolerò fra quei molteplici documenti.
Imposta da Alfonso I d’Aragona nel 1447 la tassa di focolare, furono con capriccioso intervallo di tempo eseguite pel regno le successive numerazioni, delle quali per Pontelandolfo è da ricordare specialmente la quinta. Fu compiuta nel 1522 e con tanta sincerità, che i commissarii deputati a contare i fuochi, ebbero a dichiarare: “In questa terra havimo trovato li homini multo verdateri et boni”.
Alla ordinaria dei fuochi si aggiungevano spesso le tasse straordinarie dei “donativi”, tra cui merita particolar menzione quello del 1536. Sull’inizio del quale anno (8 gennaio) Carlo V, che, per le minacce del rè di Francia e del Turco, pensava di prepararsi alla guerra, trovandosi a Napoli, espose nella chiesa di S. Lorenzo in pubblico parlamento i bisogni della corona, e chiese d’essere sovvenuto. Il dì seguente i baroni, riuniti nella stessa chiesa, deliberarono di offrirgli il donativo di un milione e 500 mila ducati; ma la grandiosa offerta spaventò lo stesso Cesare, che, per essere sicuro del milione, si affrettò a rinunziare ai 500 mila ducati. In quell’occasione, l’Università di Pontelandolfo pagò prontamente, e più di quanto doveva, sì che negli anni successivi le fu d’uopo ricorrere ripetutamente al tribunale della R. Camera, affinchè ordinasse di “excomputarle et fare boni ducati 22, tari 2 et grana 12″ pagati in più pel donativo del milione.
Caratteristico è ancora l’episodio d’un certo Serafino Bisconte, il quale era andato a comprare “li porci” a Cerce Maggiore. Il capitano, il baglivo e il piazzaro di quella terra pretendevano che pagasse per “dicti porci” il diritto di passo e gli altri diritti stabiliti sulle compere. Asseriva il Bisconte che ne era esente per l’immunità reciproca esistente tra il suo paese e la terra di Cerce, ma “finalmente fo costrecto a dar plegia (fideiussione) de pagare”. La R. Camera però, ad istanza dell’Università di Pontelandolfo, a dì 8 febbraio 1574, ordinò che nulla s’innovasse contro l’immunità reciproca asserita, e che Si restituisse quanto indebitamente era stato esatto.
Sulla fine del XVI secolo, durante il dominio di Marzio Carrata, angariati dalle innumerevoli tasse, che l’esazione arbitraria degli ufficiali del duca rendeva sempre più gravose, i cittadini gli presentaronouna “pandetta” delle singole imposizioni, supplicandolo di ordinarne la esatta osservanza; e, con ducale rescritto del 14 gennaio 1595, ne ottennero la sanzione, confermata da rigorose clausole penali. E’ da notare, fra le altre tasse, quella di “portello” e “pigliatura”, che s’imponeva a coloro che erano detenuti per causa civile o criminale; ne erano però esenti i testimoni, pei quali esplicitamente era fatta eccezione, “che essendo ritenuto alcuno per testimonio tanto nella stanza del Capitanio quanto nel castello non paghi ne portello ne Figliatura”.
Fra tante gravezze, veggo parecchi privilegi accordati ad alcune classi e a talune persone; e, naturalmente, godevano franchige i “preyti” (preti), i nobili, gli uomini d’arme e fortunatamente anche i padri di dodici o più figli. Vivevano pur tranquilli “li homini seu vassalli”, nonostante le innumerevoli vessazioni, quando, nella seconda metà del XVII secolo, furono colpiti da due castighi del cielo, la peste e il terremoto.
Nel 1656 scoppiò nel regno una fiera pestilenza. Quasi tutte le terre e le città ne furono invase. Le popolazioni, decimate ed atterrite, solo si rivolgevano nella loro fede ai santi e correvano a gara per innalzare tempii e pregare. A Napoli lo stesso viceré trasportava i cesti di terra per la fondazione del romitorio di suor Orsola Benincasa; ed è però a credere che allora a Pontelandolfo abbiano fatto voto d’innalzare, quasi di guardia, sulla via, a poca distanza dell’abitato, una chiesetta, che nel 1660 consacrarono a S. Rocco.
Il 5 giugno 1688 un forte terremoto danneggiò gravemente la città di Benevento e Cerreto e tutta la regione che si stende ai piedi del Malese: della stessa terra di Pontelandolfo molte case e chiese crollarono, molti cittadini perirono. In quel terremoto forse crollò nel castello il fabbricato che sorgeva a mezzodì della torre.
Il secolo XVIII rappresenta un periodo fecondo di liti pel comune, contro cui da gran tempo levava specialmente le sue pretese il possessore del feudo. Quasi a corollario delle lunghe prove e riprove, portate da un tribunale all’altro, la regia Camera della Sommaria, con decreto del 26 novembre 1803, contro le istanze del feudatario, ordinò che i cittadini fossero mantenuti nel godimento degli usi civici nella montagna; che non si proibisse loro di servirsi delle acque, di costruir mulini, taverne e forni per bisogno proprio o per industria; che per evitare il trasporto dei carcerati da Pontelandolfo a Cerreto, si provvedesse alla costruzione del carcere; che, infine, il duca non s’ingerisse nell’elezione degli amministratori e degli ufficiali, da eleggersi in pubblico parlamento. E, finalmente, dopo tré anni, avendo il 2 agosto 1806, Giuseppe Napoleone decretata l’abolizione della feudalità, la Commissione feudale, omologando, con sentenza del 31 ottobre 1809, la transazione avvenuta tra il principe Francesco Saverio Carrafa e il comune, chiuse definitivamente il periodo delle liti secolari.
Liberi dal giogo feudale, schiavi ancora del dispotismo dei Borboni, i buoni cittadini aspettavano giorni migliori dal risorgimento nazionale; ma l’opera turbolenta di pochi, mal repressa, scrisse allora un’altra pagina dolorosa nella storia del castello e della terra. Mentre i rivolgimenti italiani preparavano il nuovo regno, alcuni cittadini di Pontelandolfo si arruolarono tra i volontari dell’esercito meridionale, altri organizzarono la milizia della guardia nazionale per la repressione dei faziosi che infestavano la regione.
Una banda di briganti, di paesi diversi, comandata da Cosimo Giordano, aveva preso stanza alle falde del Malese. Sui primi del mese di agosto 1861 le voci su quell’orda brigantesca erano minacciose. Molti di Pontelandolfo se ne spaventarono e fuggirono lontano dal paese, ricoverandosi nelle città; pochi restarono a guardare le case.
Erano le ore del vespro del 7 agosto. Il popolo, seguendo la croce e il clero, usciva dall’abitato per recarsi alla cappella di S. Donato (di cui quel dì ricorreva la festa) ad assistere ai salmi del vespro. Dopo un’ora, mentre si aspettava in paese il ritorno dei divoti dalla chiesetta, si vide tornare la croce seguita da un vessillo e da parecchi rivoltosi, che schiamazzando, accompagnarono il clero in chiesa e l’obbligarono a cantare il “Tè Deum” in rendimento di grazie per la restaurazione del governo borbonico, che asserivano compiuta. Chiesta così la benedizione a Dio, corsero pel paese, incendiarono gli archivi del Giudicato e del Municipio, depredarono le case dei cittadini, che erano ruggiti, ed assassinarono l’esattore di fondiaria, un negoziante e un altro pacifico cittadino. Il giorno 9, Cosimo Giordano, svaligiata la carrozza postale, entrò in Pontelandolfo. Un tal Libero d’Occhio, corriere segreto dei garibaldini, preso dagli affiliati del Giordano, venne da questo ucciso. Ma “scene molto più luttuose e feroci di quelle perpetrate nel comune di Pontelandolfo si avverarono in Casalduni”. A me tocca narrarne la più luttuosa come quella che ha stretta relazione coi fatti, che poi si svolsero a Pontelandolfo.
Il giorno 11 agosto, per sedare i disordini, fu da Campobasso inviato un drappello di 45 soldati del 36° di linea col tenente Luigi Augusto Bracci e 4 carabinieri. Di due soldati rimasti indietro, perché stanchi, uno fu ucciso, l’altro gravemente ferito; i restanti, avute munizioni dal vice sindaco di Pontelandolfo, si chiusero nella torre baronale. Provocati dai briganti, tentarono subito una sortita e s’incamminarono verso Casalduni; ma ivi una banda numerosa, comandata da Angelo Pica, li costrinse a darsi prigionieri. Giunto intanto l’annunzio dell’arrivo di altri soldati, il brigante ordinò che i prigionieri fossero uccisi. Qualcuno riuscì a salvarsi, gli altri vennero uccisi. “Dopo tali avvenimenti a Casalduni per sicura nuova di soldati marcianti niuno riposò; tutti fuggirono. Ma Pontelandolfo, niente sapendo, fu còlto”. Sull’alba del 14 agosto un battaglione di 500 bersaglieri, comandati dal tenente colonnello Negri, si avanzava verso il paese; le campane suonavano a stormo, la gente smarrita fuggiva dall’abitato. Il dì seguente un dispaccio da Fragneto Monforte, annunziava laconicamente nei giornali ufficiali: “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Il sergente del 36°, il solo salvo dei 40, è colla nostra truppa, che fu oggi divisa in due colonne mobili”. Per la terza volta nello spazio di otto secoli circa, Pontelandolfo era stato fatalmente incendiato.
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Ma dalle rovine una vita nuova è risorta. Oggi una vita di progresso civile si svolge intorno alle mura del castello: e in una calma patriarcale sui monti il mandriano mena al pascolo il suo gregge e nella valle il pio colono coltiva accanto alla quercia l’ulivo, mentre la torre maestosa, vecchio simbolo di feudale dominio, spiega al sole la bandiera tricolore e guarda i monti azzurri lontani e saluta l’avvenire.